Vincenzo martemucci

Blending creativity, data, and AI engineering.

Amo il mondo dei social, della comunicazione e della cucina. Soprattutto amo la cucina del mio Paese di origine, la Repubblica Italiana. E lo faccio a ragione, poiché la cucina italiana — universalmente riconosciuta come una delle migliori al mondo — in questi giorni è stata dichiarata patrimonio immateriale dell’umanità.
A mio avviso un riconoscimento inutile, ovvio, banale… ma che comunque fa piacere a molti. Io, invece, ne sono totalmente indifferente: il valore della nostra cucina non ha certo bisogno del timbro dell’Unesco. È un valore evidente, conclamato, lampante di per sé.

Nonostante ciò, noto con una punta di preoccupazione il diffondersi in Italia di innumerevoli ristoranti e pietanze statunitensi. Da cittadino italiano di nascita e americano per naturalizzazione, la cosa mi risulta quasi incomprensibile. Perché mai qualcuno dovrebbe addentare un lobster roll quando può gustarsi un panino da urlo con ingredienti che nel resto del mondo sono introvabili o costosissimi?
Penso al vero prosciutto di Parma, alla mortadella di Bologna, ai salumi locali che — pur non avendo etichette DOP o IGP — racchiudono sapori, tecniche e materie prime dove l’autenticità non è un optional, ma il fondamento stesso della preparazione.

Ritengo inoltre riduttivo estendere il riconoscimento di “patrimonio immateriale” alla cucina italiana nel suo complesso. Il nostro è un Paese talmente ricco, unico, eterogeneo che la vera ricchezza risiede nelle cucine regionali, anzi, spesso comunali.
Se a Gravina si usa il cosiddetto “Rùccolo”, la deliziosa focaccia di San Giuseppe, ad Altamura — città limitrofa — si prepara il Pasticcio. Due ricette simili per certi versi, ma profondamente diverse, proprio come i dialetti che le raccontano. Estendete questo discorso all’intera penisola e capirete come siamo veramente un Paese irriproducibile: una costellazione di identità culinarie ineguagliabili nel mondo.

E allora mi chiedo: perché aprire a pioggia fast food a base di patatine fritte, hamburger, smashburger, polli fritti, lobster roll?
Questa globalizzazione era davvero necessaria?
La mia risposta, da espatriato romantico e perennemente illuso, è un secco no.

L’ironia estrema è che molti di questi nuovi ristoranti si autodefiniscono “americani” nonostante, per una buona fetta di italiani — complice anche la seconda presidenza Trump — gli Stati Uniti rappresentino un Paese odiato, prevaricatore, cattivo a prescindere.
Poi, però, apre una “smashburgeria” e le file girano l’angolo. Lo trovo delirante, ma non sorprendente. Se ho capito qualcosa di noi italiani, è che non abbiamo comportamenti razionali, soprattutto quando si parla di cibo.
Rischi minacce di morte se nella carbonara usi la pancetta al posto del guanciale… ma poi tutti in coda per un lobster roll. Un panino con l’astice sommerso nel burro che — per carità — una volta all’anno può anche avere senso, ma non potrà mai rispecchiare la veracità di due fette di pane con pomodoro, olio buono e origano selvatico.
Non serve neanche il sale: la sapidità arriva, o meglio arrivava, dai prodotti veri, che stiamo perdendo.

È finita, amici miei. E i fautori di questa debacle siete, come sempre, voi.
Perché siete voi ad accogliere, applaudire e finanziare ristoranti che propongono alimenti che non ci appartengono. Spesso congelati, spesso ultraprocessati.

L’America ha tantissimo da offrire e molte pietanze sono fantastiche, ma non sono certo panini, hot dog e sfritti vari. Nessuno propone in Italia una vera blueberry pie, o una pecan pie, o il tacchino del Thanksgiving; nessuno cucina le crab cakes autentiche o le vere chicken wings.
L’America non è solo smashburger e pancake.
Penso alla cucina cajun della Louisiana, al barbecue texano dove il sapore proviene dalla legna e dalle ore di affumicatura; penso al soul food degli Stati del Sud, alla cucina fusion delle Hawaii.

Anche l’America ha le sue eccellenze: meno numerose delle nostre, certo, ma reali. E di sicuro non coincidono con ciò che alcuni imprenditori affamati dei vostri soldi vi vendono come “cibo americano”.

In un mondo che corre verso l’omologazione, la cucina italiana rimane l’ultimo vero baluardo della nostra identità: non un brand, non un’etichetta, ma un patrimonio vivo fatto di mani, dialetti, ricordi e piccole differenze che cambiano da città a città.
Se continuiamo a inseguire mode che non ci appartengono, rischiamo di perdere ciò che abbiamo di più prezioso: la nostra autenticità.
E quella, a differenza delle smashburgerie, non la riapri più.

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